Ha compiuto due settimane fa 80 anni ed è uno dei più grandi attori italiani viventi.
Parliamo di Giancarlo Giannini, attore ligure classe 1942 noto per la sua duttilità (capace di interpretare ruoli estremamente diversi tra di loro, oltre che di usare dialetti provenienti da tutto lo stivale) e per aver vinto svariati premi: per lui sei David di Donatello, sei Nastri d’argento e cinque Globi d’oro, oltre che il Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes nel 1973 per Film d’amore e d’anarchia, diretto da Lina Wertmüller (che lo diresse anche in Pasqualino Settebellezze, per il quale ottenne la candidatura all’Oscar come migliore attore).
Ha recitato frattanto in due film della saga di James Bond, che non è da tutti, oltre ad essersi dismpegnato come doppiatore di due mostri sacri come Jack Nicholson e Al Pacino in alcuni dei loro film più significativi (giusto per citarne due: Shining nel caso di Nicholson, Ogni maledetta domenica nel caso di Al Pacino – è sua la voce di uno dei monologhi più famosi della storia del cinema).
Ma in questa sede vogliamo riportare alcune delle sue parole rilasciate al ‘Corriere della Sera’ nell’intervista per celebrare il suo 80esimo genetliaco.
E partiamo dalla sua significativa risposta alla domanica “Chi è Giancarlo Giannini?”
“Vengo da studi scientifici, tra noi non umanisti ci riconosciamo, siamo umili. Ancora oggi mi sento un perito elettronico mancato. Sono un uomo libero che non ha mai avuto santi in Paradiso, che continua a lavorare giocando, che ama la discrezione e la solitudine”.
Una risposta malinconica, come malinconica è la risposta alla domanda circa il suo passato da attore a fianco di alcuni dei più grandi attori della storia del nostro Paese:
“Li ho visti morire tutti. A volte, quando vengo fermato per strada e magari qualcuno riconosce il volto ma non gli viene il mio nome, e mi scambia per Gassman, Mastroianni, Tognazzi, Manfredi, faccio l’autografo al posto loro”.
La morte, d’altra parte, ha fatto visita nella sua vita in una delle maniere più terribili che un uomo può aspettarsi: attraverso la morte del figlio, ad appena 19 anni.
Questo il suo ricordo:
“E’ morto nel 1987, a 19 anni, per aneurisma. Voglio cancellare questa parola. Un giorno, stranamente, mi aveva chiesto cosa c’è dopo la morte. Non sapevo come rispondere, gli raccontai una favola, immagina tanti colori nello spazio, esistono ma poi finiscono, è come una montagna da scalare, raggiungi altri colori. Gli raccontai la morte come una sensazione di conoscenza. Ero disperato ma non ho pianto, mi sono fatto forza anche per gli altri familiari, ho pensato che ha raggiunto la conoscenza, che sta meglio di noi che ci poniamo domande e non era solo una luce consolatoria”.
Infine, tra tanti spunti, interessante il suo pensiero con gli States e con alcuni attori statunitensi:
“Jack Nicholson è quello che più mi ha impressionato. L’ho doppiato non so quante volte, a volte bloccavo il doppiaggio dall’incanto con cui lo guardavo. E’ uno imprevedibile, folle, l’ho detto altre volte, con lui entri in un mondo parallelo. Un amico è Dustin Hoffman, ogni tanto ci mettiamo a parlare al telefono della decadenza del cinema, ma i talenti anche da noi non mancano: Toni Servillo, Paolo Sorrentino Mi sono divertito con i miei due 007, ho inventato da zero il mio agente segreto, ma leggendo il copione non capivo se ero con James Bond o contro, produttore e regista mi dissero che dovevano ancora decidere. Con l’America è sempre stato un rapporto di amore e distacco. Dopo Pasqualino settebellezze, a me e Lina volevano tutti incontrarci”.
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