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Death Stranding, un nuovo capolavoro di Hideo Kojima?

Dopo anni di domande su cosa sia effettivamente Death Stranding, possiamo finalmente dire che si tratta di un gioco composto interamente da missioni di recupero e consegna. Più di quaranta ore di gioco di solo questo può suonare tanto come una tortura, ma, in realtà, alle spalle di questo videogioco vi è un progetto più grande.

La storia di Death Stranding è molto particolare.

In breve, la maggior parte dell’America è sparita perché dei sorta di fantasmi si sono presentati e hanno decimato la popolazione. Quando quelle persone sono morte, i loro corpi sono esplosi. E anche le persone colte in quelle esplosioni sono esplose. L’evento iniziale è stato chiamato Death Stranding, e ha spazzato via una gran parte della popolazione americana. Tutto quello che rimane sono piccole città-stato murate, completamente isolate l’una dall’altra.

A questo punto c’è un bisogno immediato di “trasportatori” – persone assegnate a consegnare i rifornimenti alle diverse città, rischiando la vita nelle pericolose terre desolate dell’America – in questo nuovo, paese frastagliato. È qui che entra in gioco Sam Bridges (Norman Reedus). Ha conquistato una reputazione di trasportatore di alto livello, e viene arruolato dal presidente – che tra l’altro è sua madre – per riunire le varie città sotto un unico grande network. “Se non ci riuniamo di nuovo tutti insieme, l’umanità non sopravviverà“, dice il presidente.

Non è solo la storia ad essere complessa ma persino la semplice camminata in Death Stranding è incredibilmente difficile da padroneggiare: ogni piccola roccia è in grado di far inciampare Sam, mandando per aria ciò che sta trasportando. Ci si troverà quindi a scansionare costantemente l’ambiente, esaminando il paesaggio per trovare la via più scorrevole possibile attraverso sentieri rocciosi e frastagliati. Non esiste nessun aiuto e ogni passo che si fa deve essere intenzionale, o si finisce ben presto in fondo ad un burrone. Quando il vostro zaino starà per cadere dovrete usare i grilletti destro e sinistro per bilanciare il peso, altrimenti si rischia di finire per terra, danneggiando la merce. Death Stranding è un simulatore di camminata nel vero senso della parola.

Kojima e il suo team dedicano le prime 10 ore di Death Stranding a mostrare attraverso cutscene il mondo di gioco e gli aspetti drammatici che porta con sé una situazione al limite come questa. Le scene sono molto lunghe e splendidamente dirette, il marchio di fabbrica di Kojima, capaci di farvi immergere immediatamente nel mondo post-apocalittico creatosi all’indomani del Death Stranding. Il protagonista di queste scene è il celebre bambino chiuso nel vaso. Gli esseri umani non riescono a vedere i fantasmi ad occhio nudo, ma i BBs (questo il loro nome) sì e quindi saranno utilissimi per individuare questi particolari nemici con cui di tanto in tanto, nel corso dell’avventura, dovremo fare fronte.


Solitamente nei giochi open-world si inizia il gioco con praticamente nessuna abilità particolare per poi finire con l’essere un dio in terra. In Death Stranding, invece, Sam inizierà con poche e limitate abilità e alla fine del gioco sarà praticamente lo stesso personaggio; qualche capacità di carico aumentata, un paio di gadget supplementari e niente più.

Non sarà il personaggio ad evolversi ma lo scenario attorno a lui lo farà continuamente. Posizionare una scala per superare un corso d’acqua farà in modo che quella scala venga ritrovata dagli altri giocatori che passeranno di lì. E ovviamente vale anche all’inverso. Non sarà raro quindi trovare accampamenti, scale e funi che ci aiuteranno a trovare un sentiero meno irto nel corso delle lunghe e sempre affascinanti camminate che permeano il gioco di un aspetto fiabesco e crudo allo stesso tempo, dove misteri, esoterismo e critica sociale si mescolano in un unico grande quadro esplorabile.

La storia, poi, è ricchissima di colpi di scena, merito di una sceneggiatura d’alta classe della quale Kojima è senza alcun dubbio un maestro; l’unico vero problema di questo capolavoro è una ripetitività, a tratti davvero angosciante, del comparto videoludico nel suo insieme. Si dovrebbe comprendere però, a mio parere, il vero messaggio che sta alle spalle di questa esperienza, un messaggio che Kojima ha voluto trasmettere con la creazione di questo mondo; la solitudine di un uomo viene pian piano erosa dalla creazione di legami sempre più stretti e a tratti inscindibili, e la necessità di condividere un viaggio con gli altri avventurieri diventa palese anche nel cuore di chi ha il pad in mano.

Mario Barba

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